Nel lontano 2003, alla società venne l’idea di realizzare un pupazzo gigante dalle sembianze di un drago. Non andò benissimo
Aspettando che prenda forma il kit per neonati con orsetto, body e bavaglino annunciato dal Centro di Coordinamento Club e fatto proprio dalla Ternana Calcio, del quale il presidente rossoverde Bandecchi ha portato in panchina un prototipo nelle scorse settimane, torna alla memoria la storia dell’unica vera grande mascotte che la Ternana abbia mai avuto.
Correva l’estate del 2003, quella del famoso ‘campionato lungo’ a 24 squadre dopo la doppia promozione della Fiorentina ed il ripescaggio delle tre retrocesse al termine del caso-Catania e nel mese di luglio prende forma la realizzazione di una mascotte in cartapesta, costata – si disse allora – quasi 60.000 euro, alta cinque metri, dalle sembianze di un drago. Ovviamente con la superficie tappezzata di sponsor.
MASCHIO O FEMMINA. Già, ma drago o draghetta? Luigi Agarini, presidente rossoverde era stato chiaro: “E’una draghetta, femmina, si chiamerà Nanà“. L’allora direttore marketing Cristiano Leonardi confermava nel corso di una chat col forum dei tifosi rossoverdi: “Il nome è ispirato a Ternana, sarà una draghetta, la metteremo… in un posto poco ventoso, visto che è di cartapesta“.
I piani però cambiarono ben presto, perchè dall’altra parte dell’Umbria, saputo di questa novità, risposero a tono, con immagini che ritraevano grifoni rigorosamente maschi, affiancati in varie posizioni alla mascotte femmina rossoverde. Colti sull’orgoglio, giunse il ripensamento: “Il suo nome sarà Fera, non più una femmina, bensì un maschio”.
TRISTE FINE. Fu presentata in pompa magna, a piazza Europa, stazionò per un pò di tempo davanti al tunnel degli spogliatoi e nelle intenzioni della società avrebbe dovuto avere una vita propria in campo, sotto forma di una mascotte umana e dare il via alla campagna di marketing rossoverde, ma dopo breve tempo, un pò come quella stagione rossoverde, cadde nell’oblio. Fu abbandonata in un sottoscala del centro commerciale, poi un parcheggio. Con ancora i cartelli degli sponsor – che l’avevano quasi interamente finanziata – ancora bene in vista.
Si chiamava Nanà, tristezza assoluta